venerdì 28 gennaio 2011

Anche in Calabria si puo'





Sì, anche in Calabria si può scioperare. Anche in una terra coi tassi di disoccupazione strutturalmente doppi rispetto alla media nazionale, che negli ultimi 3 anni di crisi ha perso 60.000 posti, nel settore formale, perché nel sommerso non si può sapere e anche qui rappresentiamo un primato... ebbene anche in questa terra si può lottare!
Anche qui al fianco dei metalmeccanici e del loro sindacato più rappresentativo, quello che Marchionne e Confindustria vogliono fuori dalle fabbriche. E anche qui ci ritroviamo davanti ai cancelli di una fabbrica, anche se la maggior parte di noi non fa l'operaio o l'operaia. Ci siamo perché sappiamo che quanto succede dentro quei cancelli ci riguarda tutti.
Ci riguarda in Calabria, anche se succede a Melfi o a Pomigliano, dove si afferma che il lavoro garantito non è più un privilegio, perché semplicemente deve smettere di esistere. Perché nessuno possa desiderare gli stessi diritti di quegli operai, quei diritti non devono esistere più. Per questo ci riguarda, perché levando a loro le garanzie del contratto nazionale, dello statuto dei lavoratori, della costituzione... levano a noi altri la speranza.
Riguarda noi calabresi ancora di più, perché per realizzare questo colpo i padroni scelgono di aggredire l'anello debole: le fabbriche del sud. E se qualcuno avesse ancora dubbi sul fatto che noi siamo terzo mondo, ce li levano loro con la sostanza d questo ricatto: o accetti queste condizioni o sposto la fabbrica in un altro terzo mondo, dove non fanno storie perchè quei diritti non ce li hanno mai avuti.
Questo ricatto lo conosciamo bene. Da decenni, in forme diverse, i padroni che arrivano da fuori chiedono soldi allo Stato (quindi a noi) per venire a portarci lavoro. Spesso devastano il territorio e poi scappano via. Quando restano usano la mafia in tutte le sue forme, quella della penna e quella della lupara, per usare quello stesso lavoro come una catena che ci lega tutta la vita a un obbligo d'obbedienza. Obbligo a votare chi ti dicono, a stare zitti se qualcosa non va, per esempio la sicurezza, obbligo a non protestare neanche quando ti buttano via dopo averti succhiato tutto e ti dicono che la colpa è tua, che non lavori abbastanza...
E' la storia del porto di Gioia, un esempio che vale per tutti, per fortuna anche nella parte buona: gli operai che non ci stanno, che si autorganizzano e lottano, che non accettano di svendere la propria dignità. Ce li ricordiamo in piazza qualche anno fa a manifestare contro il raddoppio dell'inceneritore... un impianto di morte imposto al territorio con lo stesso ricatto: se volete il lavoro questo c'è. E ci si va, perché è meglio morire con la pancia piena. E nulla valgono le denunce dei danni che produce all'agricoltura. Tanto, per sette centesimi le arance le comprano anche con la diossina dentro. a loro, magnati dell'industria del succo o delle grandi catene di distribuzione, non interessa che per raccoglierle a quel prezzo migliaia di uomini vivano in condizioni bestiali, arrivati da un terzo mondo ancora più lontano per vendersi a quattro soldi ad altri poveracci che poi li disprezzano per non sentirsi in colpa, per non sentirsi quel che sono: deboli che sfruttano i più deboli. Ma questo non interessa al sistema dell'industria agroalimentare, il Made in Italy funziona così. Se vi sta bene è così, sennò i succhi e le arance li compriamo direttamente dall'Africa, tanto basta spostarsi di poco, arrivano già bell'e confezionate al porto di gioia... appunto. Il cerchio si chiude.Dopo quarant'anni dall'imbroglio dell'industrializzazione al sud, per chi non è politico, imprenditore, professionista od impiegato, l'alternativa è sempre quella: farsi servo a vita per un lavoro da mulo o farsi malandrino e rischiare la libertà o la vita per i capitalisti con la pistola. O andarsene via, emigrare come i nonni, come i padri, ma questa volta senza tornare.
E invece no! il cerchio dobbiamo romperlo. Tutti uniti: operai, contadini, immigrati, disoccupati, sottrarci una buona volta a questo ricatto generalizzato, riprenderci insieme la libertà di decidere, rifutare obblighi e favori e riconquistarci il diritto ad avere diritti. Insieme agli africani quando vanno in strada, ai paesani quando vogliono cacciarli da casa per fare qualche impianto di morte, ai disoccupati in cerca di un lavoro dignitoso, agli operai fuori dai cancelli...
Come oggi!
EquoSud 
Osservatorio Migranti Africalabria Rosarno
Rinascita per Cinquefrondi

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